Esporsi con la voce
Di come la voce aiuta e aiuti ad aiutare, sé stessi e l'altro; di spazi, di maschere e fragilità nel suono.
Gli effetti degli audiolibri sull'adattamento psicosociale di preadolescenti e adolescenti con dislessia
Articolo relativo alla ricerca PMID: 19725019 DOI: 10.1002/dys.397
Obiettivo della ricerca è stato il capire quali benefici possa apportare l'uso di audiolibri (sia libri scolastici che libri di vario genere, registrati su supporti digitali) a preadolescenti e adolescenti con dislessia evolutiva.
Sono stati confrontati due gruppi, ciascuno composto da 20 adolescenti; il gruppo sperimentale ha utilizzato gli audiolibri, mentre il gruppo di controllo ha continuato a utilizzare i libri normali.
Dopo cinque mesi di training sperimentale, il gruppo sperimentale ha mostrato un miglioramento significativo nell'accuratezza della lettura, con una riduzione del disagio e dei disturbi emotivo-comportamentali, oltre a un miglioramento del rendimento scolastico e a una maggiore motivazione e coinvolgimento nelle attività scolastiche.
Contestualmente alle ricerche di Federico Batini e soci, continuiamo a considerare la lettura a voce alta -e la narrazione audio- come un supporto sociale di grande impatto;
leggere a voce alta crea competenze trasversali utili in ambito scolastico, sociale, professionale e umano.
La componente arte-terapeutica della narrazione (in tutte le sue forme) è oggetto di attenzione, ricerca e sperimentazioni in diversi ambiti didattici, e il nostro augurio è che venga presto posta attenzione al potere relazione dell’uso della voce. Così come ci è ormai noto che il linguaggio parlato si è evoluto sulla base di dinamiche sociali, al di là di derive cliniche o psicologiche, ci teniamo con i piedi per terra ed evochiamo il ricordo dei racconti attorno al fuoco, delle fiabe della buonanotte e delle tradizione orale che ha reso l’umanità costituita di esseri narranti orientati alla costruzione e, si spera, all’evoluzione.
La voce che nasconde
Maria Grazia Tirasso
È emersa l’dea di fare una riflessione su come si usa la voce per mostrarsi, rivelarsi al mondo ed esporsi per quello che siamo.
Io vorrei invertire la prospettiva e parlare invece di come alcuni usino la voce per nascondersi al mondo, per non rivelare se non ciò che non vogliono mostrare.
Questo breve excursus poggia sulla mia esperienza e deriva da innumerevoli incontri con voci di allievi attori, lettori, o solo voci in generale, non vuol essere certamente esaustivo, ma proporre qualche spunto di riflessione sul tema.
Se è vero che la voce ci smaschera, è anche vero che non tutti desiderano essere smascherati, per varie ragioni. Intanto è importate premettere che la voce normalmente racconta sia come stiamo fisicamente, sia come reagiamo alle emozioni; varia nelle sue modalità prosodiche a seconda del contesto e dell’interlocutore a cui ci rivolgiamo. C’è quindi una componente sottile ma sostanziale nella vocalità che sfugge al nostro controllo a meno che non decidiamo di…controllarla, appunto.
Nascondersi attraverso l’uso della voce può avere due macro-ragioni: la prima legata alla sfera più intima, alla gestione di emozioni disturbanti e limitanti come l’ansia o la vergogna; l’altra modalità di occultamento vocale, più “razionale”, per così dire, può avere diverse motivazioni: scarsa fiducia nel proprio strumento-voce, desiderio di perfezione, timore di scoprirsi troppo, emulazione di voci-modello, un pre-concetto su quali dovrebbero essere le caratteristiche vocali ottimali, a prescindere da quelle intrinseche del soggetto.
La nostra voce trova le proprie radici prima di tutto nella fisicità del corpo e quindi nell’apparato respiratorio e fono-articolatorio. Ad esempio, il volume che usiamo è connesso al respiro, quindi ansia e altre emozioni forti ostacolando la fluidità della respirazione, la bloccano, la rendono superficiale e la fonazione ne è condizionata; chi cerca di contrastare la fatica della respirazione in maniera costruttiva, rallenta e rende più ampie inspirazione ed espirazione a favore dell’emissione vocale rilassata, ma chi ne è incapace – o perché magari vuole coprire certe emozioni, o non sa come fare a superarne gli effetti limitanti – cede alla forza respiratoria che trascina in un eccesso di velocità oppure sfocia in una voce spezzata, incerta.
Chi invece decide consapevolmente di nascondersi dietro ad una voce “artefatta”, spesso non lo fa per coprire quelle che intende come proprie mancanze, ma crede di dover modificare il parlato per risultare più affascinante, più carismatico, più aderente al proprio ruolo sociale o familiare…
E questo processo si attiva con l’uso toni forzati perché lontani dalla propria naturale vocalità, a volte insistendo anche su vezzi, sospiri e segregati vocali ritenuti connotativi di chissà quale ideale personalità.
Un altro analogo atteggiamento vocale obbedisce ad una presunta richiesta che si immagina provenire dall’ambiente, dall’interlocutore. In questo caso si arriva a costruire un parlato ritenuto ottimale che spesso risulta invece - a seconda dei casi - artefatto, lezioso, non corrispondente allo stato d’animo che trapela da altri fattori, scollato dal contenuto del discorso, troppo ammiccante verso l’altro.
Questa esigenza poggia sull’equivoco perché il più delle volte è solo immaginata da chi parla oppure è in linea con certe abitudini consolidate legate all’ambiente all’educazione ricevuta.
Talora capita anche di sentire eccessi di ortoepia che suonano come forzature perché non sono divenuti un’abitudine reale, ma contribuiscono a costruire un personaggio (non importa se credibile). Di contro c’è chi insiste nell’errore di dizione non riconoscendolo come tale, o magari come segno di appartenenza ad una certa classe sociale.
Concludo dicendo che nascondersi agli altri attraverso un’operazione di costruzione della vocalità, è assolutamente diverso dallo studio volto ad acquisire capacità espressive, anche tecniche, per migliorarne l’efficacia, perché questo atteggiamento e costruttivo mentre l’altro è in qualche modo “in difesa”, quindi non aggiunge nulla, anzi toglie alle naturali - se pur perfettibili - capacità comunicative di chiunque.
Disse il Saggio
Storia di un articolo a voce alta
Francesco Nardi
Generalmente il contenuto di un articolo si concentra sulla sostanza del messaggio che intende far passare, più che riportare l’idea iniziale che ha condotto alla sua realizzazione.
In questo caso credo però possa essere di qualche utilità soffermarsi un attimo anche sulla sua genesi. Come nascono i contenuti che periodicamente trovate su queste pagine digitali? Come potete facilmente intuire, ciclicamente ci incontriamo – Maria Grazia, Valentina, Sandro e io – per individuare (tra le decine di altre cose da fare) quale potrebbe essere un argomento su cui far ruotare la nostra prossima Newsletter.
Per questa tornata l’idea vincente è stata quella di Valentina: “perché non parliamo di come usiamo la voce per mostrarci, per rivelarci al mondo, per esporre quello che siamo?”. Risultato: approvazione immediata all’unanimità. Da parte mia il voto a questa mozione è stato determinato dal fatto che appena Valentina si è espressa, mi è venuta in mente una massima. Una massima che dovrei dire mi ricordavo a memoria. No, non è vero. Non me la ricordavo, ma sapevo che l’avrei comunque (ri-)trovata. Da tantissimi anni infatti raccolgo in un file gli aforismi che mi colpiscono particolarmente (regola ferrea: devono essere loro a venire da me e non io ad andarli a cercare…No Google, please). Non mi ricordavo le parole precise, ma quando le ho ritrovate dopo una brevissima ricerca interna ho subito compreso perché mi fossero risuonate così tanto. Ascoltate:
Una voce forte non può competere con una voce chiara, anche se questa non fosse altro che un mormorio.
Notevole vero?
Una considerazione di partenza prima di lanciarci su qualche riflessione che ci possa a sua volta venire incontro: a mio avviso l’efficacia di una massima sta nella sua essenza. Di conseguenza l’autore/autrice, o la persona alla quale è attribuita, potrebbe rimanere del tutto sconosciuta. Che differenza fa se l’ha detto questo o quello? (…che poi magari mi sta pure antipatico e quindi mi toglie la libertà di godermi il contenuto per partito preso!).
Vabbè, ma in questo caso la persona a cui è attribuita la paternità mi sembra super partes: Confucio.
Una prima riflessione che possiamo fare è che non importa il volume, quindi la potenza e in ultima istanza la violenza. L’intensità nella comunicazione è più una questione di ragione che di decibel. Ragione che, trattandosi di dialogo, non può mai essere assoluta, bensì frutto della relazione che si instaura tra i due o più soggetti che comunicano fra loro… che Mettono in comune con gli altri il proprio punto di vista (anche) con l’ausilio della voce.
Da questa prima riflessione riguardante l’esteriorità della produzione vocale possiamo parallelamente passare alla dimensione interiore della voce chiara (per mantenere l’accezione di Confucio). Dal punto di vista corporeo, lo sappiamo, l’emissione della voce è il culmine di un processo meccanico che viene generato a partire dall’interno del nostro corpo. Ma la fisica non esaurisce certo la complessità del fenomeno, anzi la esalta nel momento in cui la nostra sostanza organica, prima di tutto cerebrale, scoperchia e cerca di comprendere il mistero dell’essere. Pensiero che può farsi suono grazie alla voce fino a prevalere anche se questa non fosse altro che un mormorio (a fronte di una voce forte, sempre Confucio).
Ogni volta che ci troviamo di fronte ad una traduzione si corre sempre il rischio di perdere elementi importanti del messaggio originale. Consapevoli di questo limite, si può fare tuttavia di necessità virtù procedendo nel nostro caso ad una terza e ultima riflessione sulla massima confuciana: l’autore (o per lui il traduttore) ricorre al termine chiara. È interessante: una descrizione visiva per un fenomeno sonoro. Tecnicamente si tratta di una sinestesia, una figura retorica che accomuna due parole legate a sfere sensoriali diverse fra loro (avete presente i colori caldi e quelli freddi?). Ebbene, va da sé che nell’immaginario di ciascuno di noi la chiarezza è legata alla luce, così come l’oscurità alle tenebre. “È chiaro!” rispondiamo quando capiamo; “mi è ancora oscuro” quando non ci riusciamo ancora. Nel lessico professionale della Psicologia (e non solo) si usa il termine insight (letteralmente “vedere dentro”) per descrivere il fenomeno secondo il quale un soggetto ha una improvvisa… illuminazione (la lampadina dei fumetti che si accende sopra la testa del soggetto è emblematica).
Concludiamo circolarmente tornando alla domanda iniziale di Valentina, rafforzata in tre parti, che ha definito l’argomento di questa Newsletter. Ognuno di noi può farlo (scegliendo rendere pubblica o meno la sua risposta): come usiamo la voce per mostrarci? (Ecco un’altra sinestesia!); Come usiamo la voce per rivelarci al mondo?; Come usiamo la voce per esporre quel che siamo?
Si accettano mormorii.
Uscire dallo spazio sonoro
Valentina Ferraro “La Musifavolista”
Esporsi con la voce è un titolo che mi catapulta indietro negli anni quando, da bambina, cantavo con spazzole, ramoscelli o cucchiai come “microfono”.
Ho sempre amato cantare e l’ho sempre fatto nelle quattro mura di quella stanza, poi nelle quattro portiere della mia macchina, quando andavo da un lavoro all’altro.
Mai di fronte ad altre persone, per l’amor del cielo!
Cantare era uno spazio mio, il gesto emotivo di protezione di uno spazio dai confini sottili: quando senti di non avere un posto da chiamare casa in cui essere visto, riconosciuto e amato, allora quel posto te lo crei, e per me era quello che avrei elaborato in seguito come concetto di “spazio sonoro” individuale.
Non approfondirò qui e ora la mia idea di spazio sonoro, ma ci tengo a focalizzarmi sul gesto dell’esposizione del proprio suono/della propria voce, che è un gesto di transizione dallo spazio sonoro individuale a quello condiviso e che genera relazione, sulla base delle risonanze che crea.
Esporsi attraverso la voce è letteralmente un portarsi fuori (come piace dire Francesco è un exponĕre dunque un porre fuori) dunque un portare fuori qualcosa che ci vibra dentro; quel qualcosa è composto da un sentire elaborato in emozione/pensiero, che si veste di corpo e genera suono.
Inevitabilmente, quindi, esporsi attraverso la voce ci mette nella posizione uscire dal nostro mondo interiore, dunque essere sentiti e visti, forse giudicati (bene o male), forse ascoltati.
Sul piano individuale, questo esporsi diventa quasi un atto psico-magico: rende suono qualcosa che prima non aveva forma, dunque il verbalizzare rende reale nel mondo esterno un sentire astratto, viscerale, interno); fin tanto che questo suono rimane nel nostro spazio sonoro individuale, compiamo un gesto proiettivo, emblematico, maieutico o taumaturgico, a seconda dei diversi gradi di consapevolezza con cui, appunto, suoniamo.
Sul piano relazionale, invece, la nostra voce vibra sulle corde dell’idea della relazione che abbiamo con l’altro e la manifesta in suono; qui lo spazio individuale incrocia quello condiviso in dinamiche ogni volta diverse e sempre personali per le quali mi è necessario fare un appunto: non c’è nulla di giusto o di sbagliato nel modo in cui viviamo i rapporti e la messa di voce nel rapporto, al più possiamo parlare di modalità funzionali o disfunzionali (e solo se parliamo di obiettivi) dunque mi è indispensabile ribadire il fatto che non esiste una bella voce per parlare con gli altri e gestire al meglio le relazioni, ma esista una condizione di eufonia per cui la voce sia libera di uscire in maniera autentica e creare risonanze altrettanto autentiche.
L’eufonia quindi racconta di un equilibrio interiore, che possiamo associare al concetto di coerenza, citando le parole di Albert Hera nell’intervista che ha fatto con noi, e quella coerenza si riverbera negli spazi sonori di cui parlo.
Esporsi con la voce significa tradurre un pezzo di sé e darlo al mondo, nella fiducia incondizionata che tutto è come è, non come vorremmo che fosse né come altri vorrebbero che fosse, ed è perfetto così, in quel suono che è la verità di quel momento;
esporsi con la voce è un atto d’amore e di fede in noi stessi, in quella cosa che mi piace chiamare anima, e di amore e fede in ciò che vive fuori di noi (sia esso il nostro riflesso allo specchio o un interlocutore).
Spesso non scegliamo di farlo, semplicemente accade che apriamo la bocca e facciamo suono così, in maniera istintiva.
Ogni volta che parliamo ci esponiamo, a diversi livelli, con la voce e penso sia importante capire che lavorare su sé stessi e sul proprio allineamento vocale aiuta a prendere coscienza del fatto che non c’è differenza tra il parlare da soli e il parlare ad una folla: ogni suono è esposizione, ogni suono è relazione.
Prendiamocene cura.
Scegliere di mostrare la tua voce è un atto politico?
Sandro Ghini
Prendo in prestito le parole di Amanda Gorman sull’esporsi attraverso la poesia per farmi e farti una domanda, anzi due:
Whose shoulders do you stand on and what you stand for?
In italiano non rende al 100% perché dobbiamo usare due verbi diversi ma suona qualcosa come:
Sulle spalle di chi stai e per cosa ti batti?
Quando decidi di usare la tua voce in pubblico per esprimere valori in cui credi e idee che vuoi rappresentare stai facendo una scelta politica? Il fatto di sentirsi i portavoce di una causa ci può aiutare a superare la naturale paura di esporsi?
Mi piacerebbe aprire una discussione su questo tema, ti va di dirmi cosa ne pensi? Ascolta il Ted e commenta usando il tasto qui sotto
Per chiunque creda che la poesia sia austera o elitaria, Amanda Gorman, la più giovane poetessa inaugurale* nella storia degli Stati Uniti, ha alcune parole caratteristicamente ben scelte. La poesia è per tutti, dice lei, e al suo nucleo riguarda la connessione e la collaborazione. In questo discorso e performance appassionati, spiega perché la poesia sia intrinsecamente politica, rende omaggio ai suoi antenati onorari e sottolinea il valore di esprimersi nonostante le proprie paure. "La poesia non è mai stata il linguaggio delle barriere", dice Gorman. "È sempre stato il linguaggio dei ponti".
* "Sacramento della poetessa" o "poetessa inaugurale" è un termine che viene utilizzato per descrivere un poeta scelto per comporre e recitare un poema speciale in occasione di una cerimonia di insediamento o inaugurazione di un leader di alto profilo, come ad esempio un presidente o un governatore. È un titolo che fa parte della cultura americana, in quanto negli Stati Uniti è tradizione avere un poeta che reciti un'opera originale durante l'insediamento presidenziale. Questa figura poetica speciale viene scelta per creare un'opera che rifletta e celebri l'occasione storica e i valori della nazione. Amanda Gorman è diventata famosa come la più giovane poetessa inaugurale nella storia degli Stati Uniti per la sua esibizione alla cerimonia di insediamento del presidente Joe Biden nel gennaio 2021.
Nel frattempo in Academy…
Menzione d’onore al nostro corsista Roberto Cesaretti, che ha vinto la prima sfida interna della nostra academy; ogni mese, infatti, ci sfidiamo a suon di voce, leggendo brani e votando tutti insieme la lettura più efficace.
Inoltre questo mese è arrivato il nuovo corso Voice-Fit, una palestra di voce per narratori e speaker, costruita per allenare il suono, l’articolazione e il controllo.
Investiamo molte risorse nell’aggiornamento continuo della nostra academy, così come della nostra formazione; lo facciamo perché crediamo nel valore relazionale della voce, nello strumento voce come veicolo di empatia e arte, nonché nella missione che ogni formatore sposa quando decide, appunto, di formare l’altro.
Se vuoi vivere la nostra etica in un percorso formativo su voce, lettura espressiva e comunicazione paraverbale, l’academy è sempre aperta per tutti i curiosi, i creativi e gli esploratori.
Immagine di copertina: Image by Sketchepedia on Freepik